LUI GIÀ UTILIZZAVA LA BUSINESS INTELLIGENCE

Mi è capitato di scoprire questa bellissima storia di competenza, ingegno e coraggio che vorrei condividere con voi.

Quest’uomo è Daniel McCallum e nel 1855, spinto dalla necessità di affrontare e gestire la crescente complessità dell’azienda che dirigeva, immaginò una struttura organizzativa con delega di potere ai manager fisicamente più vicini ai problemi da risolvere e, attorno ad essa, costruì parallelamente un sistema di dati, di metriche e di report per informare il Consiglio di Amministrazione dell’andamento della gestione aziendale riferita alle varie divisioni aziendali e all’azienda nel suo complesso.

Daniel era un ingegnere che lavorava per la New York and Erie Railroad, una compagnia che gestiva grandi tratti ferroviari negli Stati Uniti.

In quegli anni, i principali problemi della compagnia erano di due tipi:

  • aumentare la sicurezza dei passeggeri (dato che la scarsa organizzazione provocava spesso incidenti, anche gravi, come quello del 1841 avvenuto in Massachusetts)
  • ridare slancio ai risultati aziendali per attrarre nuovi investitori (dimostrando, al contempo, una rinnovata efficienza).

A complicare lo scenario, paradossalmente, era il crescente flusso di informazioni disponibili (da utilizzare, interpretare e gestire) che, grazie all’uso del telegrafo, si rendevano disponibili come mai prima.

Dunque: complessità crescente dello scenario operativo e grandi disponibilità di dati (a me fischiano le orecchie, non so a voi).

Il nostro barbuto ingegnere non si perse d’animo di fronte alla sfida e pensò ad un modello organizzativo che partisse dai reali problemi operativi: un manager (fisicamente) lontano, stabilito nella sede centrale, non poteva certo coordinare e gestire con tempi accettabili orari dei treni, ritardi, riorganizzazione del piano giornaliero in seguito ai ritardi, soluzione dei guasti ai binari e ai treni stessi!

Da questa considerazione scaturì l’oggettiva necessità di delegare il potere relativo all’operatività quotidiana a manager preposti alle 5 divisioni geografiche che vennero create in modo da spacchettare l’attività aziendale in unità gestibili efficientemente.

I manager delle divisioni, ovviamente, avevano poi il compito di rendicontare al Consiglio di Amministrazione dati e risultati di gestione creando e fornendo report e Key Performance Indicator (non sono certo li chiamassero proprio così).

Per spiegare meglio la sua idea ecco come Daniel la rappresentò.

Questo albero rappresenta per Daniel l’organizzazione dell’azienda con relativi compiti e responsabilità.

Alle radici, in basso, gli amministratori. Poi, nel tronco, i dirigenti di più alto livello, tra cui lo stesso Daniel. Le cinque divisioni (rappresentate con i rami dritti) rappresentano i cinque principali tratti ferroviari gestiti dalla compagnia.

I sovrintendenti del tratto ferroviario si occupano di due aspetti:

  • gestione fisica di binari e stazioni (rappresentati dalla linea dritta associata a ciascun ramo)
  • risorse umane: operai, macchinisti, personale addetto alle stazioni (rappresentati dalla linea curva con ulteriori diramazioni associata a ciascun ramo).

Daniel pensò ad un’operatività tattica decentrata e pronta a rispondere velocemente alle esigenze quotidiane e contingenti.

Contemporaneamente governò il flusso di dati disponibili creando informazioni periodicamente aggiornate, comparabili e sintetiche per l’alta direzione dell’azienda.

L’idea di Daniel rappresenta quella che per me dovrebbe essere la naturale dialettica tra lo svolgimento della funzione di Direzione Aziendale e lo sviluppo del Sistema Informativo di supporto.

  • Partire dall’analisi del contesto e delle necessità dell’azienda (e rivederle costantemente).
  • Procedere, dunque, ad organizzarla nel modo più sensato e logico tenuto conto dell’analisi di partenza e con lo sguardo rivolto agli obiettivi prefissati (che vanno definiti in modo esplicito e chiaro).
  • Infine, costruire informazioni utili a valutare e a decidere partendo dai dati già presenti e collezionabili (Data Lake o Data Warehouse) e/o
    creati appositamente per il successivo riutilizzo in quanto rilevanti nel contesto decisionale.

Articolo a cura di David Bianconi

IL COSTO COME VOLONTÀ E RAPPRESENTAZIONE

Spero mi passerete l’analogia (forse un po’ imprudente) con l’opera fondamentale di Arthur Schopenauer per parlare di costi e contabilità analitica.

Quando ho iniziato ad occuparmi di questi argomenti, ricordo di aver detestato l’affermazione che si trova (in varie salse) su molti testi autorevoli in materia: “quali costi per quali scopi“.

Approcciandomi alla materia (e il termine “contabilità analitica” un po’ inganna o, quantomento, ingannava me) immaginavo una strada, una tecnica, per giungere infine a un valore oggettivo che rappresentasse in modo esatto il costo aziendale (di un prodotto, di un centro, di un’area etc.).

Con iniziale stupore mi trovai invece dinnanzi a una serie corposa (allora mi sembrava sterminata) di eccezioni e di distinguo tali da confondermi circa la possibilità di raggiungere quella pretesa oggettività e finitezza del calcolo del costo.

Oggi ritrovo un po’ di quello sgomento nei miei clienti, specialmente nelle fasi iniziali in cui ci si incontra per delineare gli obiettivi di un sistema di contabilità analitica.

Spesso, come me allora, hanno in mente la determinazione di un
costo pieno (tipicamente per raffrontarlo con il prezzo di vendita praticato o per tentare di determinarlo) e, ovviamente, si aspetterebbero un numero fatto e finito.

Questo elegante e distinto signore è Robert Nozick ed è stato un filosofo statunitense, docente all’Università di Harvard, figura chiave del liberalismo contemporaneo.

Nella prefazione ad uno dei suoi libri più famosi “Anarchia, stato e utopia. Quanto stato ci serve?” ad un certo punto confessò “… ho superato la fase in cui si prova il biasimevole piacere di irritare o confondere le persone avanzando potenti ragioni a sostegno di posizioni per loro spiacevoli o addirittura detestabili. …”.

Ho citato il professor Nozick perché, inevitabilmente, nelle fasi iniziali della consulenza, mi capita di dover condurre il mio interlocutore
fuori dalla sua zona di comfort (quella in cui si aspetta di pagare la mia parcella per ottenere uno o più numeri esatti).

Non che questo mi procuri piacere, tutt’altro.

Cerco anzi di riportare presto (e senza tanti svolazzi) il mio interlocutore in un ambito, se non proprio confortevole, almeno accettabile.

In ogni caso, devo (quasi sempre) sfatare il mito dell’oggettività nella determinazione del costo per cominciare a costruire insieme al cliente quella che, secondo me, è la giusta base per impostare una contabilità analitica.

Questa base consiste, soprattutto, nel prendere atto:

  • dell’attuale modello aziendale di consumo delle risorse (cosa si fa e come lo si fa) che, ancorché non codificato, esiste sempre (è la ricetta operativa dell’azienda)
  • della visione del management riguardo al medio e lungo periodo.

In fondo il segreto è tutto qui.

Per il resto, infatti, la dottrina specializzata nella materia della contabilità analitica e dell’analisi del costo aziendale ha fornito e sviluppato una serie di potenti strumenti (configurazioni di costo, concetti, schemi logici) e li ha pure collegati ai diversi scenari operativi (vale a dire quando ha senso utilizzare una configurazione di costo e quando è più coerente utilizzarne un’altra).

Ed ecco allora la quadratura del cerchio: bisogna conoscere la strategia dell’azienda nel medio e lungo periodo per capire quali strumenti vadano applicati perché l’analisi dei costi non è un autoreferenziale esercizio di conoscenza ma è, invece, un supporto alle decisioni e, come tale, può diventare uno strumento tanto più raffinato e ben tarato quanto più chiaro è il quadro degli obiettivi che l’azienda programma di raggiungere.


Articolo a cura di David Bianconi

QUELLI A CUI NON SERVE IL BUDGET

Nessuna polemica, ci mancherebbe.

Oltretutto non sarei credibile dal momento che fornire consulenza (anche) nella costruzione e nel controllo di budget e di programmi economici di gestione è parte del mio lavoro.

Il conflitto di interessi mi sembra evidente.

La mia è una riflessione riguardo ad un’obiezione che più volte mi è capitato di ascoltare nel corso della mia vita professionale.

Grossomodo accade così.

La Direzione Aziendale si è convinta della necessità di fare un passo in avanti nell’organizzazione della vita aziendale (specialmente da un punto gestionale) e, assieme ai soggetti coinvolti nell’amministrazione, si comincia a delineare cosa può (e cosa non può) fare un sistema di programmazione e controllo dell’azienda.

Il punto che mette spesso in crisi la discussione è il budget delle vendite: specialmente per le aziende che lavorano in conto terzi o che, per altre ragioni, hanno un controllo scarso o nullo sulla determinazione del volume di vendita.

Da questa condizione (che diventa anche la premessa all’obiezione che mi viene rivolta) si vorrebbe derivare l’impossibilità (e dunque l’inutilità) di programmare alcunché: se non possiamo prevedere, o meglio, incidere sulla determinazione del livello delle vendite che cosa vogliamo programmare?

Parto dal presupposto che costruire un budget non è un’attività da bookmakers o da sciamani (l’intento, per me, non è prevedere cosa succederà ma organizzare cosa si vorrebbe che succedesse).

Se un’attività aziendale è realmente così esposta all’incertezza come viene rappresentato, alcune volte esagerando altre volte in modo pienamente condivisibile, non è forse il caso di studiare preventivamente e attentamente quale livello di attività sarà indispensabile per raggiungere obiettivi minimi (per la sopravvivenza) e, a crescere, per raggiungerne di più ambiziosi (per il soddisfacimento degli obiettivi della Direzione e dei Soci)?

I ricavi, per restare all’esempio, saranno pure difficili da preventivare ma i costi fissi e gli impegni finanziari aziendali sono noti (e ineludibili): sarà sempre possibile individuare livelli di vendita corrispondenti al raggiungimento di una serie di obiettivi (da quelli vitali a quelli desiderabili).

C’è dell’altro.

La riflessione sulle variabili aziendali che conducono ad un’aleatorietà troppo elevata potrebbe condurre, nel tempo, a trasformare convenientemente l’azienda (riposizionandola rispetto ai mercati da servire, modificando le modalità contrattuali da utilizzare nello scambio con i terzi, puntando altri settori di attività su cui investire, etc.) al fine di modificare proattivamente il livello di rischio a cui è esposto il capitale investito e, insieme, il futuro professionale e lavorativo delle persone coinvolte nella sua gestione.

A ben vedere, almeno secondo me, programmare serve sempre e a maggior ragione quando l’azienda è in una condizione di forte esposizione alla variabilità di mercato e ciò per almeno due ragioni:

  • verificare quali sono i livelli minimi di attività e verificare (al fine di prendere tempestivamente le contromisure e le iniziative possibili) se li si stia raggiungendo e/o quanto eventualmente manchi a raggiungerli
  • riflettere costantemente sui vincoli che l’attività, così com’è, imponga all’azienda e cosa si potrebbe fare di meglio o di diverso.

In fondo fare un budget è soprattutto e prima di tutto riflettere sulla propria azienda e sul mondo che la circonda (fatico a pensare a questo come ad un’attività inutile).


Articolo a cura di David Bianconi

STRATEGIA È LIBERTÀ (PERCHÉ LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE)

Non ho resistito alla tentazione di tirare in ballo il Signor G. (di cui mi piace immaginarmi più come un amico che come un ammiratore) in un articolo che, in fondo, parla di strategia e di organizzazione aziendale.

L’occasione mi si è presentata davanti agli occhi mentre scorrevo le pagine di un libro molto particolare.

Il libro in questione è “G. Vi racconto Gaber” (Mondadori) e l’autore è Roberto Luporini che ha convinto il riservato zio Sandro, storico coautore e amico di Giorgio Gaber, a raccontare le discussioni, le idee, le storie e, soprattutto, cosa intendessero veramente dire in certi testi che sono entrati nell’immaginario collettivo.

Sì perché, come spesso succede, le interpretazioni amano allontanarsi con una certa libertà (scusate il gioco di parole) dal significato originale.

Venendo al punto, ciò che mi ha colpito è stata la spiegazione del ritornello che, nella canzone “La Libertà”, martella incessantemente l’ascoltatore con l’affermazione “la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione”.

Sandro Luporini dice testualmente:

“… Ho già detto mille volte in passato che la migliore espressione per quanto volevamo dire sarebbe stata “libertà è spazio di incidenza”, ma anche tu, pur senza essere un musicista, capisci bene che una roba così non si può proprio cantare.

La libertà, nella sua vera essenza, è tale solo se esiste la possibilità di cambiare e migliorare qualcosa, altrimenti quello spazio apparentemente libero diventa soltanto una possibilità del tutto priva di conseguenze. …”

Questo mi ha reso chiarissimo il resto della canzone e, più in generale, mi ha permesso di pensare al concetto di libertà in un modo nuovo e più concreto: possibilità di incidere sull’ambiente circostante (ovviamente “ambiente” in senso lato e, dunque, anche “ambiente economico”).

Ammesso e non concesso che qualcuno abbia avuto la pazienza di leggere fino a questo punto, è arrivato il momento di vuotare il sacco e di chiarire cosa c’entri tutto questo con la strategia e l’organizzazione aziendale.

Il trait d’union, a mio modo di vedere, sta nel fatto che le aziende (e le organizzazioni in genere) sono composte da individui che possono esprimere le proprie potenzialità in modo più o meno intenso, proattivo e generoso a seconda del livello di engagement, di coinvolgimento, che percepiscono.

Ciò vale per tutti gli attori dell’azienda siano essi dirigenti, proprietari, dipendenti, collaboratori esterni.

Pertanto, se immaginiamo una realtà aziendale in cui la strategia sia chiara e che da questa discendano principi, linee guida, procedure e compiti ben definiti (e anche che tutto questo venga espresso, comunicato e condiviso all’interno dall’ambiente aziendale), allora possiamo anche immaginare che in quella realtà i soggetti coinvolti avvertano di contribuire concretamente al raggiungimento degli obiettivi generali e degli obiettivi funzionalmente collegati.

Dunque tali soggetti avranno la consapevolezza di incidere, di contribuire a cambiare le cose in meglio e, se Giorgio Gaber non si è sbagliato, saranno e si sentiranno liberi (o più liberi).

Ma c’è di più.

Ragionevolmente, in una realtà aziendale come quella descritta, ci sarà uno spazio maggiore per deleghe ed autonomia (a tutti i livelli) e a tali deleghe, coerentemente, corrisponderanno delle responsabilità: insomma soggetti più coinvolti, più responsabili e che si sentano (perché lo sono) più liberi.

Non male.


Articolo a cura di David Bianconi

ORIZZONTE DEGLI EVENTI (OVVERO DEL MODELLO MULTIDIMENSIONALE MALTRATTATO DA UN INSONNE)

In una delle sue canzoni più famose Francesco Guccini dice “bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà”: ha ragione da vendere.

Sarebbe un ottimo consiglio ma invece di seguirlo, cioè spegnere la televisione e andare a dormire, tra uno sbadiglio e l’altro, ti concedi l’ultimo zapping e il danno è fatto.

Il narratore di National Geographic: “… a più di 50 milioni di anni luce di distanza, nel cuore di una gigantesca galassia ellittica chiamata Messier 87…

La mia testa: “Bene. Fin qui ti seguo. L’ellissi è quel cerchio schiacciato! Messier? Sarà francese, sicuro!)”.

Il narratore: “… un mostro gigantesco sta divorando tutto ciò che si avvicina troppo. Stelle, pianeti, gas e polvere. Nemmeno la luce sfugge alla sua presa quando si attraversa una soglia chiamata orizzonte degli eventi …

La mia testa: “Perfetto. L’ottimismo è il profumo della vita! Ora me l’hai detto e se non ti dispiace spengo.”

Il narratore: “Eh no! Senti questa: si tratta di un buco nero supermassiccio che ha la stessa massa di 6,5 miliardi di soli, un vuoto nero circolare circondato da un anello di luce un po’ sbilenco. E c’è di più, l’abbiamo fotografato.”

È il colpo di grazia alle mie speranze di riposo.

Ormai sono preda della puntata.

Come fotografato? 50 milioni di anni luce mi sembrano tantini!

 In questo delirio cosmico la voce fuori campo di National Geographic sembra ascoltare le mie domande e inizia con le risposte: il super telescopio che ha permesso di “scattare” una foto al simpatico mostro interstellare si chiama EHT (Event Horizon Telescope) ed è il frutto di un progetto internazionale.

LA RICOSTRUZIONE DELL’IMMAGINE DEL BUCO NERO DI M87

Sì perché il potente telescopio che ha permesso di catturare l’immagine del buco nero di M87 non è un super-binocolo grande quanto un campo da calcio ma un raffinato sistema costituito da una rete di radiotelescopi dislocati dalla Hawaii al Polo Sud:
tutti insieme si comportano come un unico telescopio delle dimensioni della Terra
(e non di un campo di calcio).

E qui, tra un astrofisico e l’altro che, alternandosi al narratore, mi raccontando sorridendo che in prossimità dell’orizzonte degli eventi (ossia della superficie limite oltre la quale nessun evento può influenzare un osservatore esterno: se non ho capito male, dovrebbe essere l’anello di luce attorno al buco nero) gli orologi si fermano e non esiste più il tempo, mi viene in mente un paragone.

Mi stanno dicendo che unendo più punti di osservazione si accede ad una conoscenza superiore altrimenti impossibile.

Ebbene, il modello multidimensionale (che sta alla base delle Business Intelligence) in fondo utilizza proprio questo concetto: si organizza l’osservazione di un fatto da più punti di vista con lo scopo di estrarre informazioni più complesse e di eseguire analisi di più alto livello.

E allora, lasciando gli amici di National Geographic alla loro puntata, voglio provare a vedere se il paragone tra il funzionamento della rete di telescopi e il modello multidimensionale regge davvero.

Le due cose in qualche modo si somigliano?

Apparentemente sì ma, come avrebbe detto Dalton Russell, “Vi do una dritta, c’è il trabocchetto”.

CLIVE OWEN IN UNA SCENA DEL FILM “INSIDE MAN”

Se vi state chiedendo chi è Dalton Russell significa che non avete visto il film “Inside Man” di Spike Lee con Denzel Washington nel ruolo del detective Keith Frazier e Clive Owen che, invece, interpreta il brillante rapinatore Dalton Russell.

In questo caso vi consiglio di mollare l’articolo e correre a vedere il film: è imperdibile.

Se, invece, deciderete di continuare, vi avviso che il discorso si fa un po’ allucinante (spero non allucinogeno) e questo ammonimento è il mio personale disclaimer: continuate a vostro rischio e pericolo!

Comunque sia, vediamo di terminare questo articolo un po’ strambo e di provare a tirare qualche conclusione.

Stavamo dicendo del parallelo tra la rete di osservazione che forma il super telescopio e il modello multidimensionale.

Sicuramente è suggestivo e in qualche modo funziona ma non penso che regga fino in fondo da un punto di vista logico.

La rete di osservazione formata dai telescopi, infatti, produce una serie di set di dati che vengono assemblati per avere sufficienti elementi a ricostruire l’immagine del buco nero e del suo anello di luce.

Sono talmente tanti dati che, per trasferirli in un unico luogo, non si utilizza internet (troppo lento) ma l’aereo nel senso che gli hard disk vengono fisicamente impacchettati e trasportati.

Penso che traducendo il tutto nel modello multidimensionale potremmo convenire che l’osservazione costituisce un fatto. Non ho ancora ben compreso se i singoli set di dati formerebbero (tutti assieme) gli “n” valori di una singola istanza del fatto “osservazione” o se, invece, ogni set di dati costituirebbe una o più righe del fatto “osservazione”.

Il punto è che, secondo me, i valori relativi alle singole osservazioni effettuate da ciascun telescopio che fa parte della rete non costituirebbero il riferimento ad altrettante dimensioni del fatto (ovvero punti di vista sul fatto) ma, per l’appunto, misure del fatto (ovvero il fatto in sé).

Per questo, alla fine di tutto questo cervellotico ragionamento, mi viene da pensare che il paragone tra l’osservazione effettuata con la rete di telescopi ed il modello multidimensionale non vada oltre la suggestione di pensare che molteplici punti di vista consentono di accedere a livelli di conoscenza superiore.

Non a caso, la rete di telescopi formerebbe un unico telescopio grande quanto il pianeta Terra e, dunque, i dati ottenuti sono virtualmente appartenenti ad un unico punto di osservazione che effettua un’unica misurazione.

Vorrei chiudere con un omaggio ad un signore che, seppure scettico sull’esistenza dei buchi neri (qui aveva torto), fornì al mondo delle equazioni attraverso le quali poteva essere predetto
che se gli oggetti extra-massicci popolavano l’universo, essi dovevano essere sferici, simili a un’ombra scura incorporata in un anello di luce
.

Era Albert Einstein.

Chapeau.


Articolo a cura di David Bianconi