QUELLI A CUI NON SERVE IL BUDGET

Nessuna polemica, ci mancherebbe.

Oltretutto non sarei credibile dal momento che fornire consulenza (anche) nella costruzione e nel controllo di budget e di programmi economici di gestione è parte del mio lavoro.

Il conflitto di interessi mi sembra evidente.

La mia è una riflessione riguardo ad un’obiezione che più volte mi è capitato di ascoltare nel corso della mia vita professionale.

Grossomodo accade così.

La Direzione Aziendale si è convinta della necessità di fare un passo in avanti nell’organizzazione della vita aziendale (specialmente da un punto gestionale) e, assieme ai soggetti coinvolti nell’amministrazione, si comincia a delineare cosa può (e cosa non può) fare un sistema di programmazione e controllo dell’azienda.

Il punto che mette spesso in crisi la discussione è il budget delle vendite: specialmente per le aziende che lavorano in conto terzi o che, per altre ragioni, hanno un controllo scarso o nullo sulla determinazione del volume di vendita.

Da questa condizione (che diventa anche la premessa all’obiezione che mi viene rivolta) si vorrebbe derivare l’impossibilità (e dunque l’inutilità) di programmare alcunché: se non possiamo prevedere, o meglio, incidere sulla determinazione del livello delle vendite che cosa vogliamo programmare?

Parto dal presupposto che costruire un budget non è un’attività da bookmakers o da sciamani (l’intento, per me, non è prevedere cosa succederà ma organizzare cosa si vorrebbe che succedesse).

Se un’attività aziendale è realmente così esposta all’incertezza come viene rappresentato, alcune volte esagerando altre volte in modo pienamente condivisibile, non è forse il caso di studiare preventivamente e attentamente quale livello di attività sarà indispensabile per raggiungere obiettivi minimi (per la sopravvivenza) e, a crescere, per raggiungerne di più ambiziosi (per il soddisfacimento degli obiettivi della Direzione e dei Soci)?

I ricavi, per restare all’esempio, saranno pure difficili da preventivare ma i costi fissi e gli impegni finanziari aziendali sono noti (e ineludibili): sarà sempre possibile individuare livelli di vendita corrispondenti al raggiungimento di una serie di obiettivi (da quelli vitali a quelli desiderabili).

C’è dell’altro.

La riflessione sulle variabili aziendali che conducono ad un’aleatorietà troppo elevata potrebbe condurre, nel tempo, a trasformare convenientemente l’azienda (riposizionandola rispetto ai mercati da servire, modificando le modalità contrattuali da utilizzare nello scambio con i terzi, puntando altri settori di attività su cui investire, etc.) al fine di modificare proattivamente il livello di rischio a cui è esposto il capitale investito e, insieme, il futuro professionale e lavorativo delle persone coinvolte nella sua gestione.

A ben vedere, almeno secondo me, programmare serve sempre e a maggior ragione quando l’azienda è in una condizione di forte esposizione alla variabilità di mercato e ciò per almeno due ragioni:

  • verificare quali sono i livelli minimi di attività e verificare (al fine di prendere tempestivamente le contromisure e le iniziative possibili) se li si stia raggiungendo e/o quanto eventualmente manchi a raggiungerli
  • riflettere costantemente sui vincoli che l’attività, così com’è, imponga all’azienda e cosa si potrebbe fare di meglio o di diverso.

In fondo fare un budget è soprattutto e prima di tutto riflettere sulla propria azienda e sul mondo che la circonda (fatico a pensare a questo come ad un’attività inutile).


Articolo a cura di David Bianconi

STRATEGIA È LIBERTÀ (PERCHÉ LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE)

Non ho resistito alla tentazione di tirare in ballo il Signor G. (di cui mi piace immaginarmi più come un amico che come un ammiratore) in un articolo che, in fondo, parla di strategia e di organizzazione aziendale.

L’occasione mi si è presentata davanti agli occhi mentre scorrevo le pagine di un libro molto particolare.

Il libro in questione è “G. Vi racconto Gaber” (Mondadori) e l’autore è Roberto Luporini che ha convinto il riservato zio Sandro, storico coautore e amico di Giorgio Gaber, a raccontare le discussioni, le idee, le storie e, soprattutto, cosa intendessero veramente dire in certi testi che sono entrati nell’immaginario collettivo.

Sì perché, come spesso succede, le interpretazioni amano allontanarsi con una certa libertà (scusate il gioco di parole) dal significato originale.

Venendo al punto, ciò che mi ha colpito è stata la spiegazione del ritornello che, nella canzone “La Libertà”, martella incessantemente l’ascoltatore con l’affermazione “la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione”.

Sandro Luporini dice testualmente:

“… Ho già detto mille volte in passato che la migliore espressione per quanto volevamo dire sarebbe stata “libertà è spazio di incidenza”, ma anche tu, pur senza essere un musicista, capisci bene che una roba così non si può proprio cantare.

La libertà, nella sua vera essenza, è tale solo se esiste la possibilità di cambiare e migliorare qualcosa, altrimenti quello spazio apparentemente libero diventa soltanto una possibilità del tutto priva di conseguenze. …”

Questo mi ha reso chiarissimo il resto della canzone e, più in generale, mi ha permesso di pensare al concetto di libertà in un modo nuovo e più concreto: possibilità di incidere sull’ambiente circostante (ovviamente “ambiente” in senso lato e, dunque, anche “ambiente economico”).

Ammesso e non concesso che qualcuno abbia avuto la pazienza di leggere fino a questo punto, è arrivato il momento di vuotare il sacco e di chiarire cosa c’entri tutto questo con la strategia e l’organizzazione aziendale.

Il trait d’union, a mio modo di vedere, sta nel fatto che le aziende (e le organizzazioni in genere) sono composte da individui che possono esprimere le proprie potenzialità in modo più o meno intenso, proattivo e generoso a seconda del livello di engagement, di coinvolgimento, che percepiscono.

Ciò vale per tutti gli attori dell’azienda siano essi dirigenti, proprietari, dipendenti, collaboratori esterni.

Pertanto, se immaginiamo una realtà aziendale in cui la strategia sia chiara e che da questa discendano principi, linee guida, procedure e compiti ben definiti (e anche che tutto questo venga espresso, comunicato e condiviso all’interno dall’ambiente aziendale), allora possiamo anche immaginare che in quella realtà i soggetti coinvolti avvertano di contribuire concretamente al raggiungimento degli obiettivi generali e degli obiettivi funzionalmente collegati.

Dunque tali soggetti avranno la consapevolezza di incidere, di contribuire a cambiare le cose in meglio e, se Giorgio Gaber non si è sbagliato, saranno e si sentiranno liberi (o più liberi).

Ma c’è di più.

Ragionevolmente, in una realtà aziendale come quella descritta, ci sarà uno spazio maggiore per deleghe ed autonomia (a tutti i livelli) e a tali deleghe, coerentemente, corrisponderanno delle responsabilità: insomma soggetti più coinvolti, più responsabili e che si sentano (perché lo sono) più liberi.

Non male.


Articolo a cura di David Bianconi